In Giappone, all’inizio del secolo scorso, una semplice scritta in caratteri occidentali poteva far sembrare un marchio esotico e affascinante. La pensava così anche Rihachi Mizuno, quando nel 1906 convinse il fratello Rizo ad aprire con lui un negozio di articoli per il baseball a Osaka, la città dell’impero più curiosa delle cose in arrivo dall’America.
Da oltre settant’anni l’università cittadina si era aperta allo studio dell’Occidente, e il porto affacciato sulla baia era diventato un polo di attrazione internazionale fin dal 1868, quando ai giapponesi fu finalmente consentito di aprirsi al resto del mondo. Arrivarono mercanti e avventurieri, ma anche studiosi e intellettuali. Ognuno con i propri affari, il proprio sapere e le proprie passioni.
L'apertura verso l'occidente è passata - anche - dallo sport
Nel 1873, dal Maine, si presentò a Tokyo un professore di trent’anni: si chiamava Horace Wilson e nel suo ingombrante bagaglio, accanto ai manuali di inglese, aveva portato con sé mazze di legno e palline di gomma rivestite di pelle, strumenti di uno strano gioco che conquistò subito i giapponesi. Negli stessi anni, a Genova, i commercianti britannici facevano rimbalzare i primi palloni da football, scatenando un contagio diverso ma dalle stesse dinamiche: stupore, interesse, passione sfrenata.
Il baseball dilaga in fretta nelle scuole e nelle università giapponesi, affascina i giovani diventando in breve lo sport più diffuso nel Paese: nel 1896, a Yokoama, una squadra locale sconfigge una selezione di americani soci del Country Club locale, lo sciovinismo della stampa giapponese celebra la vittoria come un’impresa eroica. Da quel momento tutti gli studenti, fin dalle elementari, chiedono di giocare a baseball. E le scuole non faticano ad accontentarli: nascono le prime sfide, i primi tornei.
Dal baseball alla nascita di Mizuno
Nel 1980, negli uffici di Osaka, parte quello che Kenjiro definisce il. I due Mizuno - 22 anni Rihachi, ancora più giovane il fratello – hanno la vista lunga. Sull’insegna del loro primo negozio di Osaka scrivono “Mizuno Brothers”, in inglese. Sotto la scritta infilano la foto in bianco e nero di due giocatori di baseball che si stringono la mano prima di cominciare la partita. Tutto qui, quella scritta e quell’immagine sbiadita sono il primo simbolo commerciale della Mizuno. I padri, o meglio i nonni, del “runbird”: l’uccello che corre con cui oggi si identificano in tutto il mondo le scarpe e l’abbigliamento sportivo dell’azienda di Osaka.
Da commercianti a produttori
L’idea iniziale è quella di importare mazze, guanti e palline dagli Stati Uniti e di rivenderle a Osaka: ben presto, però, la domanda cresce al punto da portare i fratelli Mizuno davanti a un bivio: scontentare i clienti con i magazzini vuoti, o trasformarsi da commercianti a produttori. Se il materiale americano ci mette troppo tempo ad arrivare, tanto vale produrre da soli quello che serve. Mezzo secolo dopo, in Oregon, un gruppo di giovani americani si troverà davanti allo stesso problema, trovando la medesima soluzione: avevano cominciato importando scarpe dal Giappone, si ritroveranno padroni della Nike.
L'arrivo delle altre discipline
Già nel 1907, i Mizuno producono a Osaka le prime divise da baseball. Nel 1910 le prime scarpe, ancora senza tacchetti. Nel 1913 i primi guanti. La scritta in inglese e la foto sul negozio non bastano più, l’arrivo dei primi concorrenti rende necessario “marchiare” i prodotti con un simbolo: il primo fu un quadrato con le estremità incrociate che conteneva due cerchi concentrici, il secondo una coppa con la scritta “victory” in inglese. Il negozio è diventato una fabbrica, poi una serie di fabbriche tra Osaka e Tokyo: la produzione si allarga ad altri sport: il golf, lo sci, l’atletica.
Le prime scarpe da corsa
Nel 1928 Mizuno lancia le prime scarpe per la corsa, in pelle con i Negli anni a venire la coppa sarà affiancata da una serie di. L’inizio di una strada che, attraverso il lavoro del laboratorio tecnologico aperto all’interno della fabbrica, avrebbe portato l’azienda giapponese tra le grandissime del settore. Per anni il marchio rimane la coppa, in varie versioni, l’ultima delle quali più bassa e larga in modo da evidenziare meglio la scritta “victory”, diventata nel frattempo il mantra dei Mizuno.
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Pubblicità - Continua a leggere di seguito Negli anni a venire la coppa sarà affiancata da una serie di del cognome, in giapponese e all’occidentale, lavorando in particolare sulla M iniziale che per decenni sarà riprodotta in stile sempre più moderno sull’abbigliamento e sulle calzature dei fratelli di Osaka.
La nascita della M
Quella M, trapiantata su un mercato internazionale sempre più attento allo sport, rischiava però di creare più di un fraintendimento. Un’altra M compariva dagli anni cinquanta sulle scarpe finlandesi della Kahru, come iniziale della parola “Mestari”, campione. La forma grafica che i Mizuno avevano scelto a partire dagli anni Settanta, con la M iniziale disegnata con tre linee parallele, era davvero troppo simile alle three stripes dell’Adidas. Così Kenjiro Mizuno, il figlio di Rihachi subentrato al vertice dell’azienda, decide di fare un passo avanti. E lo fa in grande, in perfetto stile giapponese.
Chi sono i migliori maratoneti del regno animale “Contatta la redazione”, il progetto per In Giappone, 56 runner in meno di 1 ora e 3 minuti. Alla guida del team grafico nomina Noburo Kono, un designer che lavorava in Mizuno dal 1973. Kono e i suoi presentano al presidente oltre 180 bozzetti diversi, tutti bocciati, uno dopo l’altro: troppo poco internazionali, sono troppo poco “planetari” per i gusti del boss. Kenjiro Mizuno è un visionario appassionato di pittura. Convoca Kono e, mostrandogli un suo quadro che rappresentava lo spazio solcato dall’orbita dei pianeti, gli detta la filosofia cui deve ispirarsi. «L’universo si espande senza limiti, raccoglie e irradia energia – spiega - Anche lo sport si espande in modo sempre più ampio, e Mizuno deve immagazzinare la sua energia e mettere in gioco tutte le sue capacità». Verso l’infinito e oltre, insomma, questo il messaggio che deve uscire dal nuovo marchio.
Runbird, un'altra svolta per Mizuno
Kono riunisce i suoi e insieme cominciano a disegnare pianeti e satelliti, in cerca dell’idea. Un giorno si accorgono che dall’intersecarsi delle orbite emerge una figura che assomiglia a un roadrunner, uno di quegli pennuti che sfrecciano sul terreno senza volare, resi famosi in tutto il mondo dai cartoni animati di Wile E. Coyote e Beep Beep, l’uccello che fugge imprendibile. C’è tutto quello che serve: lo spazio da conquistare, l’energia, la velocità, l’eleganza del segno. È la nascita del “runbird”.
Kenjiro è contento, suo figlio Masato – futuro ceo delle Olimpiadi di Tokyo – ancora di più: «Le nostre scarpe sembrano uccelli che corrono», sorride. È la consacrazione. Nel 1982 i primi modelli debuttano sulle piste americane. Il logo non è ancora quello di oggi: le linee sono più larghe e al centro compare ancora la vecchia M dei Mizuno, sacrificata qualche anno dopo in favore di un triangolo rovesciato che aggiunge leggerezza al disegno. È l’inizio di una saga infinita: ai Giochi di Seul 1988 il “runbird” sale per la prima volta sul podio con Car Lewis, Joe De Loach e Florence Griffith. Da allora non si è più fermato.