«Ne pòdi pù de turnà de là…». Ogni tanto la nostalgia riaffiorava, nella mente e nel cuore di Luigi Beccali, rispettato ex ristoratore e importatore di vini (italiani, naturalmente) a Daytona Beach, in Florida. Per uno nato a Milano, in Porta Nuova, le radici sono importanti. Però all’America voleva bene, Nini. Per questo aveva deciso di restarci per sempre, nel dopoguerra: nella grande terra dei pionieri, degli spazi infiniti e delle conquiste impossibili, lui aveva realizzato il sogno più grande.
A Los Angeles, nel 1932, era diventato il campione olimpico dei 1.500 metri. Come si fa a rimuovere il passato, quando ha la brillantezza dell’oro più sfavillante?
Aveva i muscoli sottili, lo chiamavano “Nini”
Porta Nuova, dunque. È il 19 novembre 1907, quando Luigi nasce nella Milano più autentica. Papà ferroviere, mamma casalinga, tre fratelli. Ha un carattere vivace, gli piace muoversi all’aria aperta e si appassiona alla bicicletta: fa anche qualche gara, da ragazzo, ma con mezzi di fortuna perché in casa non si naviga nell’oro, e del resto i risultati non sono significativi.
Comincia a frequentare gli ambienti della Pro Patria, a due passi da casa, e prova con ginnastica e atletica: la prima gara la fa a quindici anni: categoria “Giovanetti”, un cross senza infamia né gloria, finisce trentaduesimo.
Ha muscoli sottili e sfiora il metro e settanta di altezza, un fisico fatto apposta per i vezzeggiativi: per i compagni di squadra diventa semplicemente “Nini”.
Il maestro che allenava i cavalli
Dopo quella prima gara, non fa che migliorare. Alla Pro Patria finisce sotto l’ala protettiva di Desiderio “Dino” Nai, il “professore”, di fatto il primo allenatore che in Italia applica allo sport principi scientifici.
È lui, nella vita medico veterinario, a intravedere il talento che si nasconde sotto l’aspetto minuto, a tratti dimesso, di Nini. Allora gli parla chiaro: «Ascolta: io non sono un vero allenatore, me ne intendo di più di cavalli; ma ho visto cosa fanno gli altri mezzofondisti e posso insegnartelo».
Il ragazzo è sveglio, capisce che di quel maestro può fidarsi e ne segue i consigli. La crescita è esponenziale.
Il podio mancato ai Giochi di Amsterdam
Nel 1928, a Parigi, il ventunenne Beccali è il primo italiano a scendere sotto i quattro minuti nei 1.500, finendo alle spalle del fuoriclasse Jules Ladomègue. Corre in 3’59” e 3/5, e in Italia la grancassa della stampa sportiva, ancor più rimbombante in tempi di esaltazione della Patria, ne fa uno dei candidati al podio olimpico.
Non va così un mese dopo ad Amsterdam: Nini è ancora acerbo, deve affinare intelligenza tattica e stile di corsa. Alle sue prime Olimpiadi non va oltre la batteria: sconfitta senza attenuanti, ma la saggezza di Nai prevale: «Tutta esperienza che verrà buona in futuro».
Da lì è un crescendo
Il ragazzo non molla, e dallo smacco di Amsterdam trae nuova linfa. Studia i campioni e le loro metodologie di allenamento. Dino Nai ha studiato alla Columbia University di New York, quella dove qualche anno dopo brillerà e in breve tramonterà la stella di una speranza del football destinata ad altre ribalte, Jack Kerouac. Ha studiato veterinaria, s’intende, ma sulle piste ha anche raccolto dati sui sistemi di preparazione dei coach statunitensi.
Beccali lo ascolta, arriva ad allenarsi anche due ore al giorno, in gara migliora velocemente: per due volte abbassa il primato italiano dei 1.500, portandolo a 3’57”2.
Nel 1931 gareggia in giro per l’Europa e affina la tattica di gara contro avversari di primissimo piano. A venticinque anni si sente pronto: nel maggio 1932 corre in 3’52”2, non solo record nazionale ma anche miglior prestazione mondiale stagionale. Un bel biglietto da visita, con una nave pronta a partire per l’America e l’Olimpiade di Los Angeles dietro l’angolo.
Professionista nell’anima
Alla grande prova ci sono tutti, o quasi. Manca Ladomègue, incappato in un’accusa di “professionismo” per aver disputato alcune gare nel Nord della Francia dietro compenso.
Beccali è già un professionista nell’anima, cura il dettaglio: sulla nave che lo porta in America macina chilometri sul ponte e utilizza ogni giorno la palestra; a New York rinuncia ai festeggiamenti organizzati al consolato italiano per andare in pista ad allenarsi.
Poi, nei cinque giorni di treno che lo portano sulla costa Ovest trova un bagno più spazioso, con una specie di vasca che utilizza come sauna per perdere peso, sull’esempio dei mezzofondisti finlandesi; al villaggio olimpico si presenta in pista due volte al giorno, una “bestemmia” per le regole dell’epoca.
Potrebbe gareggiare sia sugli 800 che sui 1.500, ma ancora una volta ascolta Nai: «Metti tutte le uova in un solo paniere…». Il 3 agosto scende in pista vincendo la propria batteria senza patemi. È pronto per la finale dei 1.500, che nessun atleta italiano aveva corso prima di lui.
Il capolavoro alle Olimpiadi del 1932
È il 4 agosto 1932. In pista per l’atto finale c’è il campione olimpico uscente, il finlandese Harry Larva. E c’è Glenn Cunningham, l’americano beniamino del pubblico. E poi l’altro finnico Eino Purje, bronzo ad Amsterdam, il canadese Phil Edwards, il neozelandese Jack Lovelock, l’inglese Jerry Cornes.
Nessuno spende il nome di Nini come favorito. E lui inizia con una falsa partenza, evidentemente è carico per l’appuntamento con la storia. La gara la fa Cunningham, spendendo oltre il dovuto. Beccali sta coperto e parte a trecento metri dall’arrivo, ma a tutti sembra troppo tardi. Prima dell’ultima curva l’americano e Edwards hanno ancora dieci metri di vantaggio.
Nini esce con una forza devastante sull’ultimo rettilineo, recupera sui due, li scavalca e resiste al ritorno dirompente di Cornes. Nessuno se l’aspettava davanti a tutti, invece la medaglia d’oro è sua.
Re d’Europa
Luigi Beccali è il campione olimpico. Torna in Italia da eroe, ma schiva le occasioni di festa, mentre il regime gonfia i pettorali facendosi vanto del successo del talento italico nel mondo:
“Beccali porta al Trionfo Olimpionico le Aquile Romane di Romolo e Remo”, titola un quotidiano con toni enfatici. Lui sorprende tutti: «Mi fermo qui, devo prendere il diploma di perito edile».
Fumo negli occhi: in realtà continua la sua corsa. Nel 1933 trionfa alle Universiadi, battendo Lovelock ed eguagliando il primato mondiale di Ladomègue, e dopo poco fa ancora meglio sulla pista di casa: all’Arena di Milano corre la distanza in 3’49” netti.
Un anno dopo, agli Europei di Torino, va a prendersi l’oro in fondo a una gara tattica: in due anni, campione olimpico ed europeo: cosa si può chiedere di più all’ex ragazzo di Porta Nuova?
Gran finale
Il canto del cigno arriva ai Giochi Olimpici di Berlino, nel 1936. I 1.500 li vince Lovelock, talento neozelandese destinato a una fine prematura nella metro di New York, tredici anni dopo. L’argento va a Cunningham, “The Kansas Ironman”, ma Nini sale ancora sul podio, prendendosi la medaglia di bronzo a ventinove anni.
Colpa del tempo che avanza inesorabile, ma anche del maledetto chiodo della scarpa di un avversario, che in una fase concitata della finale gli ferisce un mignolo, creandogli problemi di assetto nel rush finale. Tant’è, quel giorno Lovelock è davvero imprendibile, e Beccali non ha poi molto da dimostrare dopo quattro anni vissuti ai vertici del mezzofondo mondiale.
La guerra lo sorprende dall’altra parte dell’oceano, dove poi resta per il resto della vita. La nostalgia per l’Italia la placa ogni anno, nei suoi viaggi estivi: ed è proprio durante una lunga vacanza nella sua residenza sul mare a Rapallo che quei polmoni che lo hanno sorretto sulle piste gli giocano uno scherzo dannato.
Nini se ne va per sempre mentre un’ambulanza lo sta portando all’ospedale per un edema polmonare. Ma lascia un’impronta indelebile sull’atletica azzurra e mondiale.